Note 48 e 67 - Approfondimento sulle lingue elfiche e la scrittura Tengwar
di Mauro Toninelli e Alice Foti, a cura di Greta Bertani, consulenza linguistica di Michele Miatello
Si può pensare che il lavoro di Tolkien sulla creazione delle lingue di Arda, ed in particolare i sistemi di scrittura, fosse una perdita di tempo che inficiò la sua produzione filologica e letteraria. Egli lo definiva il suo “vizio segreto”[1]. “Come filologo, derivo gran parte del piacere estetico di cui sono capace dalla forma delle parole (specialmente dalla fresca associazione fra forma e significato della parola)”[2]: queste parole sono in grado di rivelare verità (si pensi alla famosa chiacchierata notturna con Lewis ricostruita da Carpenter[3]) e il fatto che persino nella storia ciò che lo appassiona di più è quando questa “getta nuova luce su parole e nomi”[4], senza dimenticare che le vicende di Arda sono nate per dare una storia alle lingue.
Oltre alla creazione di un vasto corpus linguistico, attività già di per sé tanto affascinante quanto complessa, J.R.R. Tolkien, come si è accennato, produsse anche vari sistemi di scrittura per la maggior parte dei suoi linguaggi: il più conosciuto ed elaborato di questi è il Tengwar.
È lo stesso Tolkien a spiegare di cosa si tratta e ad approfondire il suo utilizzo, nell’Appendice E de Il Signore degli Anelli: “Le lettere Tengwar erano state create per la scrittura con penna o pennello, […] ed erano le più antiche [rispetto all’altro sistema di scrittura in uso alla fine della Terza Era, ovvero le Cirth, ndr]. […] Questa scrittura non era originariamente un “alfabeto”, ossia una serie casuale e convenzionale di lettere munita ognuna di un proprio valore indipendente, recitate in un ordine tradizionale senza alcun nesso logico con le loro forme e funzioni. Era in vece piuttosto un sistema di segni consonanti, di forma e stile assai simile, che potevano venire adattati a piacere, onde rappresentare le consonanti dei linguaggi adoperati. Nessuna di queste lettere aveva in se stessa un valore fisso, ma gradualmente si vennero a riconoscere alcune relazioni fra di esse.”
Per indicare le singole Tengwar ad esse viene associata una parola del linguaggio in cui vengono utilizzate (nonostante, per indicarle in maniera univoca a prescindere dall’idioma, vengano utilizzati i loro nomi in Quenya). A seconda del linguaggio, questa può essere una parola di senso compiuto che contiene il suono che tengwa rappresenta (solitamente all’inizio della parola stessa), oppure semplicemente il singolo suono affiancato da vocali di supporto (come avviene nella recita dell’alfabeto italiano). Nonostante alcuni studiosi attribuiscano al Tengwar un principio acrofonico[5], non vi è ragione di pensare che questa sia l’intenzione dell’autore: essendo un sistema derivato da un sistema preesistente (le Sarati di Rúmil) e modificato basandosi su una struttura di interrelazioni fonetiche tra le singole lettere, manca il presupposto delle lettere intese come ideogrammi.
Tra le varie tipologie di lingue artificiali, quella che più potremmo adoperare per definire il corpus linguistico tolkieniano sarebbe la tipologia delle lingue artistiche, idiomi spesso progettati per rendere più realistica ed affascinante un’opera letteraria o cinematografica (si pensi al Newspeak di George Orwell in 1984, il Nadsat di Anthony Burges in A Clockwork Orange, il Klingon ideato da Marc Okrand e da James Doohan in Star Trek.)
Tuttavia, i linguaggi di questi ultimi si caratterizzano per essere estensioni artistiche di un’opera già concepita mentre, contrariamente a quanto si pensi, non possiamo dire lo stesso dei linguaggi tolkieniani. Infatti, le storie della Terra di Mezzo sono servite principalmente a dare una collocazione alle sue già esistenti lingue e non il contrario, così come afferma Tolkien quando dice: “Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro [riferendosi a Il Signore degli Anelli, ndr] è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero”[6].
Per cui non possiamo catalogare i linguaggi tolkieniani come lingue artistiche perché mancano del presupposto che generalmente le caratterizza: servire da ornamento ed essere figlie di una matrice letteraria già esistente.
In J.R.R. Tolkien è stata la necessità di dare alle sue invenzioni, già degne di essere chiamate lingue, una storia, un popolo ed una evoluzione che ha permesso la nascita dell’universo di Arda.
D’altronde, lo stesso Tolkien aveva cominciato a cimentarsi nella creazione di linguaggi già durante l’adolescenza. Saranno poi i suoi studi a rendere la pratica della glossopoiesi non più un gioco infantile, ma un esercizio linguistico concepito come fine a se stesso. Si può ipotizzare che Tolkien non abbia mai dato vita a manuali dedicati all’apprendimento delle sue lingue per due motivi: in quanto esteta della perfezione, era solito ritoccare costantemente i suoi linguaggi modificandone alcune caratteristiche fonologiche e morfologiche alla ricerca meticolosa dell’eccellenza assoluta; tuttavia quest’ultima, a suo personale avviso, non fu mai raggiunta.
Inoltre, come abbiamo già visto, Tolkien non concepiva le sue invenzioni come passatempi puerili e neppure erano intese come possibili lingue da imparare e adoperare, viste le loro complesse strutture: sebbene rese pubbliche attraverso il concepimento dell’universo di Arda e il corpus tolkieniano, probabilmente egli le considerava principalmente lingue private e puro diletto personale.
Sebbene almeno in un primo momento le lingue di Arda nacquero per un uso privato, ben presto esse assunsero un ruolo e una funzione molto più complessi. Tolkien concepisce infatti la nascita del linguaggio (e quindi del pensiero e, collateralmente, della conoscenza) presso i popoli della Terra di Mezzo come attributo basilare dello spirito incarnato, dunque si tratta di una componente inscindibile della genesi delle narrazioni ambientate in Arda. La lingua pensata e parlata fa parte degli “ingredienti di base” per sviluppare lo scenario e le trame. In tal senso è sì funzionale solo alle narrazioni, e in particolare solo a quelle del ciclo di Arda (anche se non mancano esempi di loro utilizzi collaterali, come ad esempio nelle Lettere di Babbo Natale), ma con un senso molto più profondo del solo ornamento o diletto narrativo.
[1] cfr. Il Medioevo e il fantastico.
[2] Lettera n° 142.
[3] H. Carpenter, Gli Inklings. C.S. Lewis, J.R.R. Tolkien, Charles Williams & co., 1985, Jaca Book, pag. 58 e ss.
[4] Lettera n° 205.
[5] L’acrofonia è il principio fonetico secondo cui una parola rappresentata da un ideogramma ha perso nel tempo il suo significato originale (perdendo cioè la stretta correlazione tra simbolo scritto e idea di parola) diventando invece soltanto l’iniziale della parola originale. Un esempio è la parola greca aleph che ha perso l’originale significato di “bue”, acquistando solo il valore iniziale della parola originale: “a”. Questo principio è proprio, ad esempio, del geroglifico egizio, delle scritture semitiche, del greco, del fenicio, di alcune scritture asiatiche e delle rune germaniche.
[6] Lettera n°205.