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Nota 29 - Tolkien filologo e il nanico

di Alice Foti e Gianluca Comastri, a cura di Greta Bertani, consulenza linguistica di Michele Miatello

L’interesse di Tolkien per il mondo della filologia fu corroborato dagli studi compiuti durante gli anni ad Oxford. Infatti, assai rilevanti furono l’incontro con il medievalista George Brewerton, che incoraggiava gli alunni a leggere lo scrittore britannico Chaucer nell’originale inglese medievale, rivelazione che spinse Tolkien ad approfondire la storia della lingua inglese e il tassello medievale della sua letteratura. Lo studio della filologia comparata, insegnata dal filologo Joseph Wright, introdurrà Tolkien all’approfondimento del gallese medievale, allo studio del celtico, del norreno e del finnico e dei testi che tesseranno gli albori del suo vasto orizzonte letterario e dei primi abbozzi delle sue invenzioni linguistiche: dal Christ di Cynewulf all’Edda antica e alcune delle opere di William Morris, tra cui The Life and Death of Jason, Völsungasaga e soprattutto The House of the Wolfings.

Tali studi, che hanno formato professionalmente J.R.R. Tolkien, vanno considerati come il punto di partenza da cui il vasto corpus tolkieniano prese inizialmente spunto.

A sostegno di quanto scrive Kilby, è possibile precisare che i linguaggi artificiali costruiti da J.R.R. Tolkien vanno considerati come lingue a posteriori, ovvero lingue artificiali in cui gran parte della grammatica e del vocabolario sono ispirati da una o più lingue naturali; questo vuol dire che i suddetti linguaggi ricostruiti possiedono determinati sostrati linguistici che si trovano nelle competenze linguistiche del suo creatore.

Nonostante alcuni studiosi ritengano che, sulla questione della scelta dei nomi per i luoghi e i personaggi e per una loro conseguente elaborazione linguistica, Tolkien abbia preso spunto dai suoi studi per la creazione del suo corpus linguistico/letterario, la posizione della comunità degli studiosi delle lingue della Terra di Mezzo (con cui ci riteniamo d’accordo) è più cauta sull’argomento, evitando di creare collegamenti forzati laddove non siano esplicitamente dichiarati dall’autore o dove il suo pensiero esplicito lasci intendere collegamenti e fonti differenti.

Edouard J. Kloczko nel suo libro Lingue degli Hobbit, dei Nani, degli Orchi[1], in riferimento alla lingua dei Nani, sostiene che “il germe di una lingua dei Nani risale al nome Mîm, il Nano del racconto di Turambar e il Foalókë. Mîm non era un nome elfico, Tolkien lo ha preso dalle antiche tradizioni scandinave, come farà più tardi con i nomi Dwalin, Fili, Kili ecc. dell’Hobbit, perché la storia di Turambar e il Foalókë deve molto alla Völsungasaga e Turin a Sigurd, l’uccisore del drago Fafnir delle leggende scandinave. […] Tolkien doveva conoscere da William Morris la storia dei Volsunghi: The story of the Volsung and Niblungs […]. È a partire da questi diversi elementi che creò il suo Mîm, Nano guardiano del tesoro di Glorund il drago.”

La prima stesura del racconto in cui compare il nome del nanerottolo Mîm risale al 1916-17, ossia la prima versione del legendarium con Il Libro dei Racconti Perduti[2]. In questa prima versione gli altri Nani presenti nella vicenda hanno sicuramente tutti nomi in Gnomico (Gnomish in inglese[3]). Inoltre, in questa versione la grafia del nome era Mim[4].

Nella rivista Parma Eladalamberon n. 11 viene pubblicato “The Gnomic Lexicon”, ossia il vocabolario del linguaggio Gnomico in cui compare la parola mim con significato di “gomma”[5]. L’esistenza di tale parola non deve necessariamente far pensare ad un sicuro collegamento con il Nanerottolo, in quanto gli studiosi dubitano che in questa occorrenza la parola sia di origine nanica, né tantomeno sia il primo germe di tale linguaggio.

Tolkien fa menzione di un idioma dei Nani[6] solo nella seconda metà degli anni ‘30 e nel 1937 compaiono le prime parole attestate in lingua nanica e la narrazione della sua storia interna[7].

Inoltre, in più occasioni Tolkien affermò che aveva concepito la cultura dei Nani per assomigliare al popolo ebraico e che il loro linguaggio aveva un gusto semitico (non norreno)[8].

Infine, i nomi dei Nani de Lo Hobbit sono effettivamente tratti dal poema eddico Vǫluspá, come anche il nome Gandalf (Gandálfr nel poema norreno). Ma su questi nomi Tolkien non fece mai un’elaborazione linguistica né filologica, né si preoccupò di dare loro un significato etimologico che li potesse ricondurre alla lingua dei Nani. Di conseguenza dobbiamo presupporre che si tratti di nomignoli o soprannomi che non hanno niente a che fare con l’idioma nanico, inseriti piuttosto nella prima stesura de Lo Hobbit quando questo era ancora una semplice fiaba della buonanotte raccontata ai propri figli. È infatti risaputo che Tolkien rieditò Lo Hobbit dopo la stesura del Signore degli Anelli per renderlo compatibile con la nuova storia, ma i nomi rimasero quelli.

Non c’è di conseguenza ragione di credere che la lingua nanica abbia avuto ispirazioni dal norreno, né che sia stata concepita prima della seconda metà degli anni ‘30.

Cautamente quindi, possiamo affermare che effettivamente Tolkien si ispirò a linguaggi del mondo primario nella creazione delle sue lingue ricostruite, ma sempre coerentemente al gusto linguistico che egli voleva attribuire a ogni singolo linguaggio.

[1] Edouard J. Kloczko, Lingue degli Hobbit, dei Nani, degli Orchi, Tre Editori, Roma 2002, p. 43

[2] J.R.R. Tolkien, C. Tolkien (ed.), The Book of Lost Tales II, George Allen & Unwin, London 1983, pp. 103, 113-114, 222-223, 230.

[3] Lo Gnomish è l’antenato concettuale del Noldorin (quest’ultimo apparso circa nel 1930) e successivamente del Sindarin (sviluppato durante la stesura del Signore degli Anelli negli anni ‘50). È la lingua utilizzata dagli Gnomi o Goldogrin, successivamente chiamati Noldor, ossia la stirpe degli gli Elfi sapienti (dal greco gnosis, “conoscenza”), prima che Tolkien rivoluzionasse le relazioni linguistiche tra le stirpi elfiche definendo la forma pubblicata postuma nel Silmarillion. È un linguaggio dal gusto celtico.

[4] J.R.R. Tolkien, C. Tolkien (ed.), The Book of Lost Tales II, op. cit., p. 1.

[5] J.R.R. Tolkien – Christopher Gilson, Patrick Wynne, Arden R. Smith, Carl F. Hostetter (ed.), Parma Eldalamberon n. 11, The Tolkien Trust, 1995, p. 57

[6] J.R.R. Tolkien, C. Tolkien (ed.), The Shaping of Middle-earth, George Allen & Unwin, London 1986, p. 104

[7] J.R.R. Tolkien, C. Tolkien (ed.), The Lost Road and other writings, Unwin Hyman, London 1987, pp. 273-274.

[8] Vedi la nota 44 del presente saggio.