Il Medioevo e il fantastico
Scheda bibliografica
di Daniela D'Alessandro
Informazioni Bibliografiche
Titolo: Il Medioevo e il fantastico
Titolo originale: The Monsters and the Critics and other Essays
Autore: J.R.R. Tolkien
Anno di pubblicazione: 1983 – Allen&Unwin
Anno di pubblicazione in Italia: 2000 – Luni Editrice | 2003 – Bompiani
Il saggio raccoglie sei interventi redatti dall’autore sulla materia fantastica, la sua relazione con il contesto storico-linguistico in cui essa veniva trattata e il discorso tenuto all’Università prima del suo ritiro. Si tratta di scritti fondamentali per capire alcune delle opere di Tolkien che esulano dal legendarium, come Il cacciatore di draghi e Il Fabbro di Wootton Major, per citarne alcune.
3. Sir Gawain e il Cavaliere Verde
4. Sulle fiabe
7. Discorso di commiato all’Università di Oxford
L’introduzione dell’opera è a cura dello studioso di Letteratura del fantastico in Italia, Gianfranco de Turris, mentre la Prefazione è affidata alle parole del figlio dell’autore, Christopher Tolkien, a cui va il merito di aver lavorato alla pubblicazione del libro.
I Saggi
1. Beowulf: mostri e critici
Secondo l’autore, la letteratura beowulfiana mancherebbe di quell’apparato critico utile alla sua comprensione in quanto poema. Quando iniziò a essere studiato, il più antico testo anglosassone venne letto esclusivamente sotto quella prospettiva storica che portò con sé l’analisi filologica, mitologica, archeologica ed etnologica. Tolkien, a questo punto, si chiede che fine abbia fatto l’aspetto poetico, più potente del substrato storico-letterario e tale da non poter essere tralasciato.
2. Tradurre Beowulf
Il saggio, estremamente tecnico, analizza il modo erroneo in cui l’opera è stata tradotta, studiandone la semantica e il verso, ponendo l’accento sulle allitterazioni e sull’assestamento degli emistichi. Tolkien riconosce quanto sia arduo ricostruirne il metro o rendere con un termine moderno una parola ricorrente dell’originale senza denaturalizzarlo; non esiste alcuna traduzione letterale in grado di dare completezza all’antico inglese che arriva ai giorni nostri infarcito di storia nordica.
3. Sir Gawain e il Cavaliere Verde
L’opera in questione è, per l’Inghilterra, il testo letterario per eccellenza del XIV secolo, dietro cui si celano miti primordiali, antichi culti, credenze e simboli di epoche assai remote. L’opera condensa temi quali la decapitazione, il senso di ospitalità, la costruzione e decostruzione dell’eroe, la tentazione. Inoltre risente delle influenze che le civiltà inglesi, irlandesi e francesi si scambiarono. Fondamentale è anche l’elemento fiabesco e magico, rappresentato dalla cintura che preserverà Gawain dalla morte.
4. Sulle fiabe
Senso principale della fiaba (da non confondere con la favola che incentra il suo interesse esclusivo intorno alla figura animale) è raccontare di piccoli esseri fatati o narrare leggende favolose, irreali, incredibili e spesso false. Questa è la definizione che l’Oxford English Dictionary dà del termine, mentre le fate sarebbero esseri sovrannaturali di minuscola statura con poteri magici che influenzano, nel bene e nel male, le vicende umane. Tolkien si sofferma sul senso delle espressioni sovrannaturale e minuscola statura: i fairies sono del tutto naturali (sarebbe l’uomo, semmai a essere sopra natura, cioè in contrasto con Essa) e la piccolezza non è prerogativa assoluta degli abitatori del Regno delle Fate. Non di tutti, almeno. Anche racconto fatato sarebbe inappropriato per Tolkien perché la Magia che qui risiede non è mai fine a sé stessa, ma una delle sue dirette conseguenze è soddisfare i desideri umani di contemplazione del tempo e dello spazio.
Circa le origini della fiaba, sarebbero assai antiche e sviluppatesi attorno ai fattori di creazione, diffusione e derivazione. I maggiori fruitori sono i bambini, ma non ne è escluso l’accesso agli adulti capaci di immaginazione: gli stessi adulti che – nella forma più alta di fantasia – possono arrivare a plasmare mondi secondari attraverso l’arte della subcreazione.
5. Inglese e Gallese
Premesso che le lingue sono i principali segni distintivi dei popoli, il saggio indaga le origini del gallese come direttamente discendente dalla lingua britannica parlata ancor prima delle invasioni sassoni. Questo la rende la lingua dei primi britanni. Fondamentali per la sua evoluzione sono stati gli studi filologici di Salesbury e la redazione di una Dictionary in Englyshe and Welshe per le due lingue che, ad oggi, sono ancora a stretto contatto, soprattutto nel Galles.
Si passa in rassegna, poi, la storia della lingua celtica, giunta in Britannia in tempi assai arcaici, e il rapporto di Tolkien con le lingue neolatine. Tra tutte, sicuramente il francese è stata quella che ha accolto meno il suo favore, a differenza del latino e dello spagnolo. Però la lingua che lo ha maggiormente impressionato è stato il gotico, a partire dal Vocabolario di A primer of the Gothic Language. Da quel momento, Tolkien ha iniziato a inventare parole gotiche per approdare poi allo studio del finlandese.
6. Un vizio segreto
Il vizio di cui l’autore parla è la capacità di inventare lingue, tratto che ha distinto Tolkien sin dall’infanzia. Chiunque è in grado di tracciare segni o articolare suoni, ma soltanto alcuni riescono a farlo a livelli superiori, generando poesia. Questa si collega a un’arte per cui non è sufficiente un’intera vita di studio: la costruzione di lingue immaginarie, attività mossa esclusivamente dal puro piacere insito nel contemplare il nuovo rapporto che si viene a creare tra concetto e simbolo fonetico, di cui greco, finlandese e gallese sono capaci. Esempi possono essere il Nevbosh o la sua evoluzione in epoca romantica, il Naffarin. Il saggio presenta esempi di poesie in elfico redatte dal professore, come Eärendel al timone e Oilima Markirya (L’ultima arca), poesia di Tolkien scritta in Quenya ritrovata dal figlio Christopher.
7. Discorso di commiato all'Università di Oxford
Dopo una carriera universitaria come docente di Anglosassone e Lingue e Letteratura Inglese, per le cattedre Rawlinson and Bosworth (1925) e Merton (1945), Tolkien si congeda con un lungo e critico discorso, nei suoi confronti e nei confronti dell’insegnamento stesso. Non ha mai considerato la Filologia come salvezza dell’umanità, dunque non ha mai pensato che la si dovesse ficcare giù per la gola dei ragazzi, come una medicina, che riesce tanto più efficace quanto più è nauseabondo il suo sapore, pena trasformare una materia il cui significato è amore per le lettere in misologia, odio per le stesse. Durante il suo lavoro, Tolkien si è dedicato a ciò che gli piaceva e ha cercato di risvegliare, nelle giovani menti e coscienze il piacere dello studio.
Non meno problematica risulta la questione della figura del ricercatore in quanto, secondo il Professore, aveva ormai perso il suo valore di titolo accademico. Se il bisogno reale doveva essere il desiderio di conoscenza, il titolo di ricercatore appariva limitante, quasi un abbonamento postlaurea.